Quando ho provato a riprendere la mia attività di podcaster,
l’occasione è stata una promettente serie di PrimeVideo, The Wilds, che –
finché è durata – è risultata un ottimo epigono di Lost, non tanto e non solo
per le ovvie similitudini della trama (non limitate all’insularità dell’ambientazione
e alla presenza di un personaggio un po’ outcast che leggeva in spiaggia quello
che trovava, e che giustificava il mantenimento del titolo Lostbooks), quanto
per la ricchezza di livelli di lettura e di interpretazione. The Wilds, inoltre,
ha messo sistematicamente a tema una dicotomia che in Lost era stata solo
sfiorata, mentre quelle tra cooperazione e competizione, tra scienza e fede,
tra destino e libero arbitrio sono state il leitmotiv di intere stagioni. La
dicotomia è quella tra maschile e femminile, naturalmente, e – si scopre in
particolare alla fine della prima stagione – su di essa si basa l’esperimento sociale
della protagonista inizialmente occulta della serie. L’Alba di Eva, questo il
nome del progetto, era mirato a dimostrare che è possibile una gynotopia –
un’utopia al femminile, una ginecocrazia in cui le donne si autogovernano e
affrontano le minacce dell’ambiente circostante in modo più efficace degli
uomini. Un esperimento sociale con tanto di gruppo di controllo, il Tramonto di
Adamo: un gruppo di ragazzi, su un’altra isola, ma con le stesse minacce: in
breve tempo la loro comunità pare fare la fine del Signore delle Mosche, in un clima
di sopraffazione e di paura (emotiva e fisica). Anche l’evento decisivo per la definitiva
degenerazione in distopia dell’isola dei maschi è un evento fallocratico, quasi
a dimostrare che tutte le distopie sono patriarcali.
La domanda che ci si potrebbe porre, astraendo da questo
prodotto dopotutto minore dell’immaginario, è: le utopie sono tutte
matriarcali? E perché abbiamo la sensazione che tutte le utopie, anche del
lontano futuro, prevedano un ‘ritorno alla terra’?
È ad esempio il caso di Sempre la Valle, di Ursula K.
Le Guin, alla quale dobbiamo peraltro tanta letteratura di fantascienza al
contempo utopista, femminista e pacifista: il volume è strutturato come una
raccolta di testi antropologici e etnografici sulla popolazione dei Kesh, che
abita la California del nord in un futuro imprecisato post–collasso
tecnologico. A corredo del volume, in Italia mai più ristampato dopo il 1986 da
Mondadori, c’era anche una musicassetta contenente poesia e canti di quel
popolo (oggi ascoltabili su Spotify), un po’ alla De Martino e al suo La Terra
del rimorso. I Kesh sono “una società matrilineare, matrilocale,
matricentrica; la vita è il mondo, l'ambiente, il femminile, è dono, scambio,
movimento da e verso il centro, la vita è riflessione, ma è anche vissuto che
non si può spiegare in parole, è mistero, respiro, suono, luce, oscurità,
silenzio” (recensione di Maria Teresa Romiti sulla Rivista Anarchica dell’epoca).
La loro nemesi sono i Condor, guerrieri e portatori di rovina e malattia:
conquistatori che arrivano per soggiogare e adattare al loro modello di sviluppo
chi invece ha saputo, come i Kesh, fiorire seguendo il ritmo della
natura.
Sviluppo contro fioritura: una società patriarcale
costruisce, sviluppa, erige – una matriarcale accoglie, fiorisce, danza.
Una coincidenza significativa (ma ben sappiamo che tutto
avviene per una ragione) mi ha portato a conoscere il lavoro di Marija
Gimbutas (1921-1994), archeologa e linguista lituana: la cita nel suo più recente lavoro colei che mi invitò a parlare di Lost all’Università di Verona, ma è
anche al centro delle riflessioni di uno dei podcast recenti più interessanti e
avvincenti presentati da Il Post.
Ne L’invasione si parla, prima da un punto di vista
linguistico, ma poi anche dal punto di vista genetico, di come in Europa siano
arrivate le popolazioni che parlavano proto-indoeuropeo, portando narrazioni e
modelli culturali totalmente diversi da quelli preesistenti. Le popolazioni che
Gimbutas chiama dell’Europa Antica (fino al IV millennio a.C.) vivevano in
società molto legate alla terra, con divinità femminili che racchiudevano
caratteristiche di fertilità e ciclicità. Società non matriarcali, ma con
tratti di non individualismo, accoglienza e non espansionismo che le resero
candidate perfette per essere soppiantate dai popoli proto-indoeuropei (in
realtà provenienti dalle steppe pontico-caspiche) della civiltà kurgan (o janma),
che – avendo addomesticato il cavallo – si spostarono molto rapidamente fino all’estremo
occidente d’Europa, con un modello di società individualista, conquistatrice,
aggressiva – e con racconti (l’uccisore del serpente, i gemelli divini, e tante
altre narrazioni che fanno da sostrato mitico a tutte le culture dell’Europa non
più antica) in cui la componente maschile è decisamente prevalente.
La realtà non è così netta, naturalmente: non è che i kurgan
siano arrivati ‘tronfi di mascolinità’ (per citare Colin Renfrew, principale
critico di Gimbutas, alla quale poi diede ampiamente ragione), armati, a cavallo,
per razziare e conquistare i pacifici popoli antico-europei, agricoli e
matriarcali. L’invasione che dà il titolo al podcast è avvenuta in tempi lunghi,
attraverso mescolanze, scambi, sovrapposizioni e mutazioni che hanno preso
molto tempo.
Però è piuttosto affascinante pensare che l’utopia che oggi
cerchiamo nel lontano futuro prefigurato dalla fantascienza potrebbe essere
stata realizzata nel lontano passato restituito dall’archeologia e dalla
linguistica. E che quella che oggi chiamiamo distopia sia in realtà qualcosa in
cui siamo immersi da cinquemila anni, probabilmente incapaci – culturalmente,
linguisticamente, forse anche geneticamente – di pensare qualcosa che sia
diverso dallo sviluppo, dall’affermazione di un potere a spese di
un altro, dal controllo (centrale o diffuso poco importa) sulle
manifestazioni delle persone e dei gruppi.
L’ossessione contemporanea per la misurazione, per
quantificare, rendere confrontabili, valutare ogni fenomeno umano – foss’anche
la sostenibilità ambientale dello sviluppo medesimo – ha radici lontanissime e
probabilmente inestirpabili in quello che oggi chiamiamo Occidente. Un occidente
(che non è evidentemente geografico, ma culturale, linguistico,
economico-politico) che non ammette improduttività, non ammette tempi diversi
da quelli pianificati, non ammette connessioni ‘altre’ rispetto a quelle
progettate. Anche fenomeni profondamente umani come le arti figurative e la
musica rischiano di rimanere ingabbiati in un modello di lavoro–produzione–consumo
improntato alla definizione di obiettivi e alla loro misurazione, non già alla
libera fioritura delle idee e degli artefatti conseguenti.
Mark Fisher, come di consueto illuminante, prima di andarsene, ha immaginato un Acid
Communism che attingesse alla psichedelia (fenomeno non ingabbiabile per
eccellenza, regno della fioritura incontrollata) e alla condivisione collettivista,
per contrastare il realismo capitalista autoproclamatosi ineluttabile. Ma si tratta,
anche in questo caso, di un modello che pretende di sostituirne un altro – che
è senz’altro patriarcale e individualista – ma che non riusciamo a pensare
diversamente da un'altra -αρχία.
All’inizio di Universal Mother, album del 1994 di
Sinéad O’Connor, si sente la voce di Germaine Greer prospettare qualcosa
di radicalmente alternativo, qualcosa che lei chiama cooperazione e attribuisce
alle donne:
“I do
think that women could make politics irrelevant by a kind of spontaneous
cooperative action, the likes of which we have never seen – just so far from
people’s ideas of state structure and viable social structure that it seems to
them like total anarchy. And what it really
is: very subtle forms of interrelation which do not follow some hierarchical
pattern that is fundamentally patriarchal. The opposite of patriarchy is not matriarchy, but fraternity. And I think it’s women who are going to have
to break the spiral of power and find the trick of cooperation”
Lost in effetti aveva parlato già di cooperazione, come alternativa alla competizione, nel primissimo dualismo Jack/Locke, allorché erano - da poco sull'Isola - il pastore contro il cacciatore. Ma si trattava di modelli entrambi patriarcali: risignificando il nesso tra cooperazione e femminile è possibile pensare a un’alternativa davvero vitale alla distopia (ecologica e sociale) che stiamo vivendo?